lunedì 28 luglio 2014

THE PYRAMID - A. Visani, L. Alessandro, R. Albanesi, S. Chiesa, A. Zannone, 2013

Una piccola piramide di metallo in vendita su una bancarella attira l'attenzione di un giornalista. Dopo aver acquistato il misterioso oggetto, una forza infernale sembra impadronirsi dell'uomo: demoni malvagi cercano di manifestarsi nel nostro mondo attraverso coloro che vengono in contatto con il monile, che funge da porta interdimensionale. L'oggetto passerà di mano in mano, seminando vittime e orrore, fino a quando si giungerà alla resa dei conti in un epilogo da incubo.

Da un soggetto di Alex Visani e Raffaele Ottolenghi nasce “The Pyramid”, lungometraggio che si snoda attraverso quattro episodi strettamente collegati tra loro da un unico filo conduttore: la piramide del titolo, che ha accompagnato l'uomo nel corso della sua storia sulla Terra portando con sè il male, come mostrano le ottime animazioni 3D e i disegni che accompagnano i titoli di testa. Il primo episodio è “Ritual” di Alex Visani (super visore dell'intero progetto), che vede protagonista un giornalista (Raffaele Ottolenghi) alle prese con la strana piramide, la cui forgiatura da parte di un fabbro demoniaco viene mostrata attraverso una breve introduzione (a cura dello stesso Visani) intitolata “Twinge”.
Impossibile non cogliere il riferimento al cubo di “Hellraiser”, saga cult degli anni ottanta da cui Visani trae più di uno spunto per portare avanti il suo racconto. La piramide, proprio come la scatola infernale dei cenobiti, rappresenta infatti il tramite, la “chiave” attraverso la quale oscure entità si rivelano nella nostra realtà. In uno scenario cupo e opprimente, tra torture, catene e sacrifici umani, si conclude questo primo capitolo, forse il più visionario e claustrofobico tra tutti, per lasciare spazio a “Dream Door” diretto da Luca Alessandro. Il malefico monile viene questa volta ritrovato, proprio nella stanza d'albergo dove alloggiava il giornalista, da una giovane cameriera. Il suo compagno ne verrà “posseduto” e farà una brutta fine. Dal punto di vista narrativo i tempi sono piuttosto dilatati e, se da una parte ciò aiuta a ricreare una certa atmosfera suggestiva e pacata, dall'altra toglie spazio a quel piglio orrorifico viscerale che forse avrebbe maggiormente destato l'attenzione dello spettatore. La storia continua con “Pestilence” diretto dal duo Albanesi/Chiesa: alcuni ragazzi a passeggio tra i boschi entrano in possesso della piramide, trasformandosi in “zombi-infetti” pronti a contagiare chiunque incroci il loro cammino. Il cambiamento di stile rispetto agli episodi precedenti è piuttosto brusco: i due registi optano per una ricercatezza tecnica dalle tinte moderne, che ricorda molto i recenti film del filone come “28 Giorni  Dopo” o “La Horde”. La fotografia fredda e il montaggio convulso giocano a favore di una veloce evoluzione della trama, che vira verso lidi inaspettati. A concludere l'opera “Apocalypse” di Antonio Zannone, ambientato in uno scenario post-apocalittico, dove il male ha ormai preso il sopravvento ed attende di venire al mondo incarnandosi nel ventre di una donna mostruosa. Tra i sopravvissuti due giovani, che lottano contro le creature per distruggere finalmente la “chiave” e chiudere così le porte della
 
loro dimensione. L'idea di proporre un'antologia, unendo menti diverse con approcci diversi, seppur interessante, rischia di creare una certa discontinuità stilistica che potrebbe far storcere il naso. Da apprezzare certamente gli omaggi al cinema horror degli anni '80 -e non solo-, ma l'impressione è quella che i nostri siano rimasti “intrappolati” nei topoi del genere, proponendo una storia estremamente derivativa in un contesto in cui gli spunti personali scarseggiano. Laddove si tende a distinguersi dando vita a certi manierismi di stile, sulla scia dei film catastrofici a tema “infetti” di ultimissima generazione, si perde d'occhio lo sviluppo della storia che prosegue in modo frettoloso e poco originale. La volontà di puntare in alto c'è: alcuni momenti sono ben riusciti come il segmento finale di “Ritual”, intriso di una bella atmosfera marcia e visionaria grazie ad una attenta cura alla fotografia e ad una prova attoriale degna di nota; altri invece, nonostante i buoni propositi, vengono inevitabilmente penalizzati dal ridottissimo budget di cui può disporre una produzione indipendente come questa. Un aspetto da non sottovalutare che impone sicuramente dei limiti e un certo spirito di adattamento che la squadra (probabilmente a malincuore) ha dimostrato di avere. Va premiato il coraggio di cimentarsi nella realizzazione di un progetto di tale portata nonchè l'impegno e la dedizione che i registi coinvolti mostrano e trasmettono, cercando di emergere con i pochi mezzi a disposizione in un panorama (quello italiano) che poco offre a chi ha talento e passione.