mercoledì 12 novembre 2014

STOIC - U.Boll, 2009

Quattro detenuti giocano una partita a pocker. Uno di loro propone una scommessa: il primo che perde dovrà mangiare un tubetto di dentifricio. Chi propone la sfida è anche colui che la perderà e , una volta rifiutatosi di onorare il patto, verrà brutalmente sottomesso dai compagni di cella fino ad uno sconvolgente epilogo. 

Uwe Boll viene soprattutto ricordato per le obbrobriose trasposizioni cinematografiche di alcuni storici videogiochi  a sfondo horror degli anni ’90 (“Alone in The Dark”, “House of the Dead”, “BloodRayne”), attirando a sé –e non a torto- l’ira dei fan e le acerrime critiche della stampa internazionale.  Sorprendentemente  la lunga carriera del regista tedesco, costellata perlopiù da pellicole mediocri, ci regala un’opera di alto livello e capace di lasciare il segno. Lontano anni luce dallo stile artificioso ed effettistico a cui Boll ci ha abituati, “Stoic” è un film costruito con pochi ma efficaci mezzi: quattro attori, una sola location e nessun virtuosismo tecnico.
La trama, ispirata a fatti realmente accaduti nella prigione di Siegburg in Germania, dà ampio spazio sia alla voce diretta dei protagonisti intenti a rilasciare la loro versione dei fatti, sia agli avvenimenti occorsi durante quella tragica giornata.  Alle scene che si svolgono nella cella si alternano infatti le interviste dei detenuti, un escamotage che funziona molto bene e che “alleggerisce” il ritmo della pellicola, consentendo allo spettatore di approfondire la conoscenza dei personaggi. Boll non si limita a realizzare un film di denuncia sociale – probabilmente non  era questo l’intento principale (la critica al sistema carcerario è infatti piuttosto blanda e superficiale, seppure esistente tra le righe) – ma focalizza l’attenzione sui meccanismi psicologici e i mutamenti comportamentali causati dalla prigionìa, dall’essere costretti a condividere uno spazio ristretto con i propri simili e a dover ogni giorno combattere contro la noia di una vita ormai vuota: la perdita definitiva e quasi inconsapevole di ogni barlume di integrità morale e di umanità; l’incapacità di vedere nell’altro (e in fondo in sé stessi) un uomo e non un semplice oggetto.  Autore di un’eccellente prova attoriale, il quartetto di reclusi formato da Shaun Sipos, Sam Levinson, Steffen Mennekes e un Edward Furlong decisamente imbolsito rispetto ai tempi di “Terminator 2” e “American History X”, risulta estremamente convincente e realistico quanto basta per scolvolgere lo spettatore e trascinarlo in un vortice di inaudita violenza che si risolve in un’escalation quasi sistematica ed inevitabile. La pellicola si spoglia di ogni inutile orpello vomitandoci in faccia una realtà cruda e marcia, dove quello che inizia come un semplice gioco per ammazzare il tempo si trasforma ben presto in una pericolosa valvola di sfogo a discapito dell’elemento debole del gruppo.  Rabbia, repressione e istinti animaleschi prendono vita attraverso una massicia dose di exploitation, che scaturisce con una veemenza tale da risultare a tratti insostenibile,
non tanto sotto il profilo visivo quanto a livello psicologico. Boll – in quest’occasione probabilmente baciato dalla Musa –  è abile nel costruire un clima di forte tensione giocando su ritmi sempre crescenti, che tengono elevata la soglia dell’attenzione. Ciò che sconvolge ed impressiona non è soltanto la violenza fisica a cui assistiamo ma anche e soprattutto la manipolazione psichica che i protagonisti, in quella particolare situazione, subiscono.  Tra pentimenti e giustificazioni, i tre carnefici rivelano tutta la loro fragilità emotiva accusandosi a vicenda, nel tentativo vano di alleggerirsi la coscienza. Il regista mette in piedi una storia drammatica e scioccante toccando le giuste corde ed esasperando al massimo il disagio vissuto dai protagonisti, la cui sorte verrà svelata soltanto alla fine.  Un disagio che alimenta reazioni disumane e certamente estremizzate, ma in fondo non molto lontane dalla realtà quotidiana delle case di reclusione. E quando un film mostra anche solo un briciolo di quella che potrebbe essere una possibilità realmente esistente raggiunge l’obiettivo.