Una misteriosa donna convive sin da bambina con un’insolita
condizione fisica che la rende insensibile al dolore. L’unico modo per sfogare
la sua rabbia e frustrazione è quello di torturare atrocemente delle ragazze,
con la complicità di un uomo psicolabile. Un giorno rapisce una giovane
studentessa giapponese, ma non sa che questa scaglierà su di lei un’antica e
terrificante maledizione…
Dopo la partecipazione all’antologia “17 A Mezzanotte” con il segmento “Holdouts”,
Paolo Del Fiol si cimenta nella realizzazione di questo mediometraggio incluso
nell’opera a due episodi “Connections”. A seguito dell’uscita di quest’ultimo,
il regista lombardo si è dedicato ad un lungo e meticoloso lavoro di
rimasterizzazione della pellicola, arricchendola con un
ottimo score musicale ed apportando migliorìe di varia natura. “Kokeshi” (il termine indica una tipologia di bambole tradizionali giapponesi) potrebbe essere definito come una sorta di prosecuzione concettuale e stilistica del discorso artistico intrapreso dal regista agli esordi ma con una maggiore sicurezza e padronanza di mezzi. A differenza dei precedenti progetti, Del Fiol ha a disposizione un minutaggio piuttosto corposo che gli consente di costruire una storia maggiormente strutturata e dalle contaminazioni più disparate: dal torture porn, allo splatter/gore, al j-horror, dipingendo un quadro di ampio respiro, ma pur sempre tinto di rosso. Il cineasta italiano, da sempre appassionato di cultura orientale, sfrutta l’immaginario orrorifico nipponico – con tanto di feticci maledetti e spiriti assetati di vendetta –, facendone di fatto un leit motiv. Affascinante sì ma forse anche controproducente: a soffrirne è soprattutto il comparto sceneggiatura che non offre spunti “freschi” ma ricorre a tematiche piuttosto prevedibili. A sopperire alla mancanza di originalità – ingrediente comunque non fondamentale in un genere così inflazionato come l’horror – è la struttura estetica del prodotto che appare nel complesso molto solida grazie allo sviluppo di soluzioni visive accattivanti ed eleganti, che accompagnano sapientemente sia i momenti atmosferici che quelli più efferati. La
fotografia, ricercata e raffinata, accentua i toni macabri della pellicola attraverso un contrasto cromatico che vira nei toni del rosso caldo durante i passaggi più sanguinolenti, creando un’ambientazione suggestiva e sinistra. L’occhio vigile della telecamera, per la gioia degli spettatori più intransigenti, non lesina sui dettagli splatter che rappresentano il punto forte del film: gli effetti speciali – a cura di Davide Pesca – sono ottimamente realizzati e risultano di grande impatto in alcune sequenze particolarmente crude. Le musiche di stampo dark-ambient, composte da Antony Coia, si sposano perfettamente con le immagini, acuendo il piglio quasi drammatico dei passaggi maggiormente cruenti . In fondo quello che viene messo in scena è proprio il disagio esistenziale della protagonista, che vive la sua incapacità di provare dolore come un handicap. La recitazione – a tratti un po’ legnosa – non è memorabile ed inficia in parte la credibilità dei personaggi. Da apprezzare certamente l’evidente percorso di crescita artistica di Del Fiol che, affiancato da un team di validi professionisti, dà vita ad un prodotto onesto destinato a non passare inosservato nel marasma degli indie nostrani. Sarebbe interessante vedere all’opera il regista in un lungometraggio, mettendo magari da parte per una volta i fantasmi giapponesi; per il momento accontentiamoci di questi assaggi spietatamente succulenti che certo non deluderanno i palati più estremi.
ottimo score musicale ed apportando migliorìe di varia natura. “Kokeshi” (il termine indica una tipologia di bambole tradizionali giapponesi) potrebbe essere definito come una sorta di prosecuzione concettuale e stilistica del discorso artistico intrapreso dal regista agli esordi ma con una maggiore sicurezza e padronanza di mezzi. A differenza dei precedenti progetti, Del Fiol ha a disposizione un minutaggio piuttosto corposo che gli consente di costruire una storia maggiormente strutturata e dalle contaminazioni più disparate: dal torture porn, allo splatter/gore, al j-horror, dipingendo un quadro di ampio respiro, ma pur sempre tinto di rosso. Il cineasta italiano, da sempre appassionato di cultura orientale, sfrutta l’immaginario orrorifico nipponico – con tanto di feticci maledetti e spiriti assetati di vendetta –, facendone di fatto un leit motiv. Affascinante sì ma forse anche controproducente: a soffrirne è soprattutto il comparto sceneggiatura che non offre spunti “freschi” ma ricorre a tematiche piuttosto prevedibili. A sopperire alla mancanza di originalità – ingrediente comunque non fondamentale in un genere così inflazionato come l’horror – è la struttura estetica del prodotto che appare nel complesso molto solida grazie allo sviluppo di soluzioni visive accattivanti ed eleganti, che accompagnano sapientemente sia i momenti atmosferici che quelli più efferati. La
fotografia, ricercata e raffinata, accentua i toni macabri della pellicola attraverso un contrasto cromatico che vira nei toni del rosso caldo durante i passaggi più sanguinolenti, creando un’ambientazione suggestiva e sinistra. L’occhio vigile della telecamera, per la gioia degli spettatori più intransigenti, non lesina sui dettagli splatter che rappresentano il punto forte del film: gli effetti speciali – a cura di Davide Pesca – sono ottimamente realizzati e risultano di grande impatto in alcune sequenze particolarmente crude. Le musiche di stampo dark-ambient, composte da Antony Coia, si sposano perfettamente con le immagini, acuendo il piglio quasi drammatico dei passaggi maggiormente cruenti . In fondo quello che viene messo in scena è proprio il disagio esistenziale della protagonista, che vive la sua incapacità di provare dolore come un handicap. La recitazione – a tratti un po’ legnosa – non è memorabile ed inficia in parte la credibilità dei personaggi. Da apprezzare certamente l’evidente percorso di crescita artistica di Del Fiol che, affiancato da un team di validi professionisti, dà vita ad un prodotto onesto destinato a non passare inosservato nel marasma degli indie nostrani. Sarebbe interessante vedere all’opera il regista in un lungometraggio, mettendo magari da parte per una volta i fantasmi giapponesi; per il momento accontentiamoci di questi assaggi spietatamente succulenti che certo non deluderanno i palati più estremi.