L’etologo Marco Contrada perlustra con il suo camper una
zona boschiva tra il Friuli e la Slovenia, con lo scopo di studiare la fauna
del posto. Immerso nella natura più incontaminata, l’uomo si appresta a
posizionare telecamere collegate al suo pc, in modo da poter seguire in presa
diretta gli spostamenti degli animali. Grazie a questo escamotage scopre che
una volpe ha raggiunto quello che sembra essere un paese abbandonato; così, incuriosito dalle carcasse di alcune bestie,
decide di oltrepassare il fiume e raggiungere il luogo. Ma il corso d’acqua si
ingrossa a causa della pioggia impedendogli di tornare indietro. Bloccato in un
villaggio fantasma dovrà fare i conti con le misteriose creature che si
aggirano tra gli edifici diroccati.
Dopo una serie di corti e con svariati lungometraggi all’attivo (“Radice Quadrata di Tre”, “CustodesBestiae”, “Occhi”), Lorenzo Bianchini partorisce una delle opere più riuscite e
suggestive del panorama horror nostrano degli ultimi tempi.
“Oltre Il Guado” (conosciuto anche con il titolo “Across The River”) è stato presentato alla 59esima edizione del Taormina FilmFest e vanta una sfilza di nomine e riconoscimenti nazionali ed internazionali. Il regista italiano non si limita a drigere la pellicola ma è anche autore del soggetto e della sceneggiatura (insieme alla sorella), confezionando nel complesso un prodotto di buona fattura che si ritaglia il suo spazio tra le recenti produzioni underground italiane. Bianchini si appoggia ad un plot minimale – se vogliamo anche piuttosto derivativo – ma è abile a sfruttare al meglio i pochi mezzi a disposizione, mostrando una padronanza tecnica degna di nota. Il factotum udinese infatti, anzichè perdersi in intrecci complicati, che generalmente inficiano la buona riuscita di un film di argomento soprannaturale, opta per soluzioni visive d’impatto che sopperiscono parzialmente alla “piattezza” della storia, puntando tutto sulle sensazioni suscitate dagli scenari in cui è ambientata la vicenda. L’inconsueta scelta delle location si rivela particolarmente azzeccata: i boschi del Friuli offrono uno spettacolo naturalistico incantevole e allo stesso tempo inquietante. Inconsueta è anche l’idea di incentrare il racconto su un unico protagonista, interpretato da Marco Marchese, il quale da’ prova di ottime capacità attoriali, sostenendo egregiamente il peso di una pellicola scevra di dialoghi e che non prevede interazioni con altri personaggi ma unicamente con l’ambiente circostante. Visioni spettrali che richiamano certo cinema orientale e rumori sinistri si rincorrono tra le fatiscenti case di un antico e ormai disabitato villaggio disperso nella natura selvaggia, che proprio oltre il guado nasconde un terrificante segreto. La trama, nella sua estrema semplicità, evolve seguendo ritmi piuttosto lenti. Vi sono momenti molto dilatati, che non incidono sull’effettivo sviluppo narrativo, ma sfruttano la bellezza dei paesaggi al fine di rafforzare l’atmosfera tetra e minacciosa che si respira dall’inizio alla fine. La parte centrale del film subìsce di conseguenza una battuta d’arresto che smorza la suspance e rischia di scivolare nel soporifero. A sostegno di una regia non tradizionale, con frequenti riprese in soggettiva che rimandano al classico
mockumentary, troviamo una fotografia estremamente elegante e raffinata, curata da Daniele Trani, che si rivela essere uno dei punti di forza del film: l’utilizzo di tonalità fredde e cupe rende gli scenari montani ancora più spaventosi, soprattutto nelle sequenze in notturna, in contrasto con le scene iniziali della pellicola, nelle quali predominano i colori naturali dell’autunno. L’attenzione ai piccoli dettagli fa la differenza sottolineando una ricercatezza di stile personale ed incisiva: alcune immagini denotano una tendenza all’autorialità, come l’insistenza sull’elemento “acqua”, protagonista di molte scene, che sembra nascondere significati reconditi e oscuri. In una dimensione totalmente avulsa dalla realtà civilizzata, la solitudine causata dal forzato isolamento del protagonista trasforma l’avventura in un viaggio pauroso dove la sanità mentale vacilla e la percezione sensoriale si disintegra in una dimensione onirica e fantastica. La ghost story che Bianchini ci propone non ha particolari guizzi di originalità ma riesce a coinvolgere e ad affascinare lo spettatore grazie ad un piglio orrorifico forte e convincente. “Oltre il Guado” è la dimostrazione che le produzioni indipendenti possono offrire prodotti di qualità inversamente proporzionale al budget a disposizione: un’opera che trasuda passione, attitudine e buona volontà. Impeccabile sotto l’aspetto tecnico, la pellicola avrebbe sicuramente reso di più con qualche aggiustamento nello script ma probabilmente non era nelle intenzioni del regista realizzare un film con una maggiore dinamicità. Se siete amanti dell’horror più viscerale ed atmosferico non potete perdervi questa visione made in Italy.
“Oltre Il Guado” (conosciuto anche con il titolo “Across The River”) è stato presentato alla 59esima edizione del Taormina FilmFest e vanta una sfilza di nomine e riconoscimenti nazionali ed internazionali. Il regista italiano non si limita a drigere la pellicola ma è anche autore del soggetto e della sceneggiatura (insieme alla sorella), confezionando nel complesso un prodotto di buona fattura che si ritaglia il suo spazio tra le recenti produzioni underground italiane. Bianchini si appoggia ad un plot minimale – se vogliamo anche piuttosto derivativo – ma è abile a sfruttare al meglio i pochi mezzi a disposizione, mostrando una padronanza tecnica degna di nota. Il factotum udinese infatti, anzichè perdersi in intrecci complicati, che generalmente inficiano la buona riuscita di un film di argomento soprannaturale, opta per soluzioni visive d’impatto che sopperiscono parzialmente alla “piattezza” della storia, puntando tutto sulle sensazioni suscitate dagli scenari in cui è ambientata la vicenda. L’inconsueta scelta delle location si rivela particolarmente azzeccata: i boschi del Friuli offrono uno spettacolo naturalistico incantevole e allo stesso tempo inquietante. Inconsueta è anche l’idea di incentrare il racconto su un unico protagonista, interpretato da Marco Marchese, il quale da’ prova di ottime capacità attoriali, sostenendo egregiamente il peso di una pellicola scevra di dialoghi e che non prevede interazioni con altri personaggi ma unicamente con l’ambiente circostante. Visioni spettrali che richiamano certo cinema orientale e rumori sinistri si rincorrono tra le fatiscenti case di un antico e ormai disabitato villaggio disperso nella natura selvaggia, che proprio oltre il guado nasconde un terrificante segreto. La trama, nella sua estrema semplicità, evolve seguendo ritmi piuttosto lenti. Vi sono momenti molto dilatati, che non incidono sull’effettivo sviluppo narrativo, ma sfruttano la bellezza dei paesaggi al fine di rafforzare l’atmosfera tetra e minacciosa che si respira dall’inizio alla fine. La parte centrale del film subìsce di conseguenza una battuta d’arresto che smorza la suspance e rischia di scivolare nel soporifero. A sostegno di una regia non tradizionale, con frequenti riprese in soggettiva che rimandano al classico
mockumentary, troviamo una fotografia estremamente elegante e raffinata, curata da Daniele Trani, che si rivela essere uno dei punti di forza del film: l’utilizzo di tonalità fredde e cupe rende gli scenari montani ancora più spaventosi, soprattutto nelle sequenze in notturna, in contrasto con le scene iniziali della pellicola, nelle quali predominano i colori naturali dell’autunno. L’attenzione ai piccoli dettagli fa la differenza sottolineando una ricercatezza di stile personale ed incisiva: alcune immagini denotano una tendenza all’autorialità, come l’insistenza sull’elemento “acqua”, protagonista di molte scene, che sembra nascondere significati reconditi e oscuri. In una dimensione totalmente avulsa dalla realtà civilizzata, la solitudine causata dal forzato isolamento del protagonista trasforma l’avventura in un viaggio pauroso dove la sanità mentale vacilla e la percezione sensoriale si disintegra in una dimensione onirica e fantastica. La ghost story che Bianchini ci propone non ha particolari guizzi di originalità ma riesce a coinvolgere e ad affascinare lo spettatore grazie ad un piglio orrorifico forte e convincente. “Oltre il Guado” è la dimostrazione che le produzioni indipendenti possono offrire prodotti di qualità inversamente proporzionale al budget a disposizione: un’opera che trasuda passione, attitudine e buona volontà. Impeccabile sotto l’aspetto tecnico, la pellicola avrebbe sicuramente reso di più con qualche aggiustamento nello script ma probabilmente non era nelle intenzioni del regista realizzare un film con una maggiore dinamicità. Se siete amanti dell’horror più viscerale ed atmosferico non potete perdervi questa visione made in Italy.