Tre ragazzi romani abbordano due turiste straniere e le
convincono a partecipare ad un rave party in un bosco. Giunte sul posto, le
giovani scopriranno loro malgrado le vere intenzioni della cricca ma il vero
incubo inizierà quando terrificanti presenze aggrediranno vittime e carnefici
per compiere la loro spietata vendetta.
Esordio alla regia per il giovane Raffaele Picchio, astro nascente del panorama
horror underground nostrano, che con questa opera prima ha nettamente diviso il
pubblico tra ammiratori e detrattori. La pellicola è stata oggetto di numerose
critiche e polemiche a causa dei contenuti estremamente violenti ed ha
incassato la bocciatura da parte della commissione di revisione cinematografica,
la quale ne ha vietato la proiezione nelle sale cinematografiche per motivi di
“offesa al buon costume” (motivazione a dir poco risibile e che per quanto mi
riguarda riserverei ai cinepattoni, ma
vabè…). Fortunatamente la prolifica Sinister Film ha provveduto a distribuire
una bella edizione dvd, rigorosamente non censurata, anche in Italia.
Uno degli aspetti più interessanti di “Morituris” è il modo in cui, in maniera spontanea e scorrevole, passa da un sottogenere all’altro, dando vita ad un intreccio narrativo avvincente ed originale. I titoli di testa si aprono sulle note di “Roma Divina Urbs” degli Aborym (che ritroveremo anche nei titoli di coda), danzando sulle bellissime tavole disegnate da Alessandro Gatto e animate da Stefano Cocca. I disegni rappresentano un brillante escamotage per raccontarci il tema portante del film introducendoci ad esso in maniera differente dal solito; da seguire quindi attentamente poiché parte integrante della pellicola. “Morituris” è un’opera che ci parla di violenza brutale e primordiale, come un elemento ineliminabile della natura e della società umana, che affonda le radici nelle antiche e leggendarie storie di Spartaco fino ad arrivare ai giorni nostri: il personaggio chiave che ci fornisce una sorta di spiegazione in tal senso è quello interpretato da Francesco Malcom, coinvolto in un cameo che lo vede protagonista di alcune sequenze piuttosto forti che omaggiano il famigerato Patrick Bateman, protagonista di “American Psycho”. La prima parte del film si svolge all’interno di un auto e, sebbene possa apparire piatta e frivola, è fondamentale per la caratterizzazione dei personaggi. Questi ultimi vengono dipinti utilizzando i classici stereotipi degli slasher americani: la solita combriccola di stupidotti dediti allo sballo che agganciano le classiche turiste bellocce e libertine. Dialoghi e recitazione in questo primo segmento appaiono un po’ forzati sebbene funzionali alla presentazione della comitiva. Il film decolla e cambia totalmente tono non appena si arriva a destinazione. Immersi nel buio più totale e circondati dalla natura selvaggia di un bosco, teatro un tempo di sanguinarie battaglie, gli uomini del gruppo abbandonano le maschere e i panni da bravi ragazzi per
indossare quelli dei carnefici. Comincia così un lungo e cruento momento (ispirato al massacro del circeo) che rimanda al rape no revenge di classica matrice settantiana ma con un tocco registico personale e dinamico che rafforza la palpabile sensazione di disagio. In questi concitati passaggi più che esplicitare la violenza soffermandosi su macabri dettagli come spesso avviene in questo genere di film, la si esalta attraverso una gestualità suggerita e per questo di maggiore impatto psicologico: la drammaticità di tali sequenze è ottimamente resa dall’intepretazione delle due protagoniste femminili (Valentina D’Andrea e Desiree Giorgetti) le quali, attraverso il linguaggio del corpo, esprimono realisticamente una sofferenza atroce ed indicibile, nel fisico e nello spirito. All’apice della follia, quando sembra che non possa accadere nulla di peggiore, entrano in scena i tanto attesi gladiatori zombie per la mattanza finale. Sulle note di “Stupro e Addio” dei Cripple Bastards assistiamo a teste che saltano, crocifissioni e torture con antichi strumenti in un’altalena frenetica che non concede tregua allo spettatore. Peccato che in alcuni frangenti si fatichi a distinguere i movimenti poiché la fotografia eccessivamente scura impedisce di avere una buona visuale: il film è stato infatti girato di notte in un luogo certamente non facile da illuminare e, oltre a questo problema di natura tecnica, c’era la volontà di sfruttare il buio naturale del bosco per dare quel piglio reale che le luci artificiali avrebbero sicuramente tradito. Da menzionare gli ottimi effetti speciali curati dal maestro Sergio Stivaletti e la quasi totale assenza della dona alla pellicola quel tocco artigianale e nostalgico tipico della vecchia scuola. A conti fatti il regista romano ha dato prova di avere delle buone potenzialità che certamente avrebbe potuto esprimere al meglio con un budget più sostanzioso. Non mi resta che complimentarmi con Raffaele Picchio e il suo team per aver partorito un prodotto così crudo e malsano, una boccata d’aria per il cinema horror italiano degli ultimi tempi!
Uno degli aspetti più interessanti di “Morituris” è il modo in cui, in maniera spontanea e scorrevole, passa da un sottogenere all’altro, dando vita ad un intreccio narrativo avvincente ed originale. I titoli di testa si aprono sulle note di “Roma Divina Urbs” degli Aborym (che ritroveremo anche nei titoli di coda), danzando sulle bellissime tavole disegnate da Alessandro Gatto e animate da Stefano Cocca. I disegni rappresentano un brillante escamotage per raccontarci il tema portante del film introducendoci ad esso in maniera differente dal solito; da seguire quindi attentamente poiché parte integrante della pellicola. “Morituris” è un’opera che ci parla di violenza brutale e primordiale, come un elemento ineliminabile della natura e della società umana, che affonda le radici nelle antiche e leggendarie storie di Spartaco fino ad arrivare ai giorni nostri: il personaggio chiave che ci fornisce una sorta di spiegazione in tal senso è quello interpretato da Francesco Malcom, coinvolto in un cameo che lo vede protagonista di alcune sequenze piuttosto forti che omaggiano il famigerato Patrick Bateman, protagonista di “American Psycho”. La prima parte del film si svolge all’interno di un auto e, sebbene possa apparire piatta e frivola, è fondamentale per la caratterizzazione dei personaggi. Questi ultimi vengono dipinti utilizzando i classici stereotipi degli slasher americani: la solita combriccola di stupidotti dediti allo sballo che agganciano le classiche turiste bellocce e libertine. Dialoghi e recitazione in questo primo segmento appaiono un po’ forzati sebbene funzionali alla presentazione della comitiva. Il film decolla e cambia totalmente tono non appena si arriva a destinazione. Immersi nel buio più totale e circondati dalla natura selvaggia di un bosco, teatro un tempo di sanguinarie battaglie, gli uomini del gruppo abbandonano le maschere e i panni da bravi ragazzi per
indossare quelli dei carnefici. Comincia così un lungo e cruento momento (ispirato al massacro del circeo) che rimanda al rape no revenge di classica matrice settantiana ma con un tocco registico personale e dinamico che rafforza la palpabile sensazione di disagio. In questi concitati passaggi più che esplicitare la violenza soffermandosi su macabri dettagli come spesso avviene in questo genere di film, la si esalta attraverso una gestualità suggerita e per questo di maggiore impatto psicologico: la drammaticità di tali sequenze è ottimamente resa dall’intepretazione delle due protagoniste femminili (Valentina D’Andrea e Desiree Giorgetti) le quali, attraverso il linguaggio del corpo, esprimono realisticamente una sofferenza atroce ed indicibile, nel fisico e nello spirito. All’apice della follia, quando sembra che non possa accadere nulla di peggiore, entrano in scena i tanto attesi gladiatori zombie per la mattanza finale. Sulle note di “Stupro e Addio” dei Cripple Bastards assistiamo a teste che saltano, crocifissioni e torture con antichi strumenti in un’altalena frenetica che non concede tregua allo spettatore. Peccato che in alcuni frangenti si fatichi a distinguere i movimenti poiché la fotografia eccessivamente scura impedisce di avere una buona visuale: il film è stato infatti girato di notte in un luogo certamente non facile da illuminare e, oltre a questo problema di natura tecnica, c’era la volontà di sfruttare il buio naturale del bosco per dare quel piglio reale che le luci artificiali avrebbero sicuramente tradito. Da menzionare gli ottimi effetti speciali curati dal maestro Sergio Stivaletti e la quasi totale assenza della dona alla pellicola quel tocco artigianale e nostalgico tipico della vecchia scuola. A conti fatti il regista romano ha dato prova di avere delle buone potenzialità che certamente avrebbe potuto esprimere al meglio con un budget più sostanzioso. Non mi resta che complimentarmi con Raffaele Picchio e il suo team per aver partorito un prodotto così crudo e malsano, una boccata d’aria per il cinema horror italiano degli ultimi tempi!