La signora Parker perde la vita durante una tempesta in un
tragico incidente. Il marito Frank si ritrova così da solo a far fronte alle
necessità della famiglia, a cui è molto legato. Nonostante il grave lutto, il
patriarca è determinato a portare a termine un misterioso e sanguinoso rituale tramandato
di generazione in generazione, che coinvolge anche i tre figli. Qualcuno, nella
piccola cittadina dove vivono, isolati dal resto della comunità, intuisce il
terribile segreto e inizia ad indagare portando alla luce una sconcertante
verità.
Remake del messicano “Somos Lo Que Hay” (2010) di J.M.Grau, “We Are What We Are”
si aggiunge alla lunga lista delle pellicole di genere “famiglie non
convenzionali”, per usare un eufemismo. Nonostante il film non presenti
elementi innovativi e risulti - soprattutto agli occhi di un appassionato -
molto prevedibile, riesce a catturare
l’attenzione dello spettatore, dimostrandosi uno dei prodotti più interessanti
degli ultimi anni. Jim Mickle mantiene intatto il canovaccio originale, calcando
molto la mano
sull’aspetto emotivo della storia e lavorando scrupolosamente sulla caratterizzazione dei personaggi. Questi, seppur inseriti in un contesto alquanto singolare, sono determinanti per la buona riuscita del film, grazie ad un cast che offre una prova attoriale sopra le righe e che riesce nell’arduo tentativo di rendere quanto più credibile possibile l’intreccio narrativo. L’idea del regista era quella di adattare la tematica proposta (non la svelo ma basta guardare il retro del dvd per capirla) sfruttando l’impostazione visiva degli anni ’70: la strizzata d’occhio al celebre “Texas Chainsaw Massacre” è più che evidente ma i due film mantengono ciascuno la propria precisa identità (per fortuna). Lo sviluppo della trama è ben studiato e si attesta su ritmi piuttosto lenti ma funzionali alla comprensione dei meccanismi che regolano la vita dei personaggi. Più che il tema in sé appare intrigante la messa in scena dell’opera , la quale consente l’approfondimento di natura culturale, sociale e religiosa che fa da struttura portante alla pellicola. Quasi senza accorgercene veniamo trascinanti nel folle e macabro mondo della famiglia Parker, un mondo fatto di rispetto per le tradizioni e devozione assoluta verso le proprie origini ancestrali. Sullo sfondo aleggia un certo fanatismo religioso, mai eccessivamente ostentato, ma elemento imprescindibile a cui Frank si aggrappa per giustificare le azioni che compie: tutto ciò che fa è in nome di Dio e dell’amore per i suoi cari e perciò giustificato e perdonato. La percezione della realtà è completamente distorta dalle convinzioni dell’uomo, non una figura “cattiva” -se collocata ovviamente in tale contesto- ma premurosa e amorevole nei confronti dei figli, tanto da suscitare una sorta di compassione mista a disgusto. Le figlie, se prima subivano passivamente le scelte dei genitori, dopo la morte della madre si ritrovano loro malgrado coinvolte in prima persona, scoprendosi estremamente riluttanti e dubbiose. Le due attrici (Ambyr Childers e Julia Garner), carismatiche ed affascinanti più che mai, sono abili ad esprimere il malessere dei personaggi che interpretano, comunicando attraverso la gestualità ed il linguaggio del corpo la moltitudine di stati d’animo che causa loro un inaspettato moto interiore: confusione, disagio, senso di colpa, ribellione. Sentimenti contrastanti con quello che è il senso di appartenenza al focolare domestico e all’attaccamento affettivo verso la figura paterna: questa dualità rende la storia più avvincente ed “umana”, pur nella sua cornice bestiale e crudele. Non c’è compiacimento nella violenza perpetrata dai nostri, poiché è una violenza necessaria alla sopravvivenza. Al contrario, le giovani donne, nell’affrontare il pesante fardello, appaiono sofferenti dinnanzi alla propria diversità e tenteranno di ribellarsi alla loro condizione, disumana e allo stesso tempo “naturale”. Le tante sfumature della pellicola consentono a Mickle di approcciarsi alla storia con un piglio drammatico senza mai sminuire l’aspetto più concettualmente horror. A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, sono pochi infatti i momenti gore, confinati nell’esplosivo e spettacolare finale. Il comparto tecnico è di alto livello: ad incorniciare una regia curata e ricercata, vi è una fotografia tetra, metallica e “settantiana”, che si sposa perfettamente con l’atmosfera marcia del film. “We Are What We Are” è in definitiva un buon prodotto -che tuttavia deluderà chi cerca l’originalità a tutti i costi-, non un involucro vuoto tinto di rosso ma un contenitore di riflessioni con cui tutti noi possiamo potenzialmente identificarci.
sull’aspetto emotivo della storia e lavorando scrupolosamente sulla caratterizzazione dei personaggi. Questi, seppur inseriti in un contesto alquanto singolare, sono determinanti per la buona riuscita del film, grazie ad un cast che offre una prova attoriale sopra le righe e che riesce nell’arduo tentativo di rendere quanto più credibile possibile l’intreccio narrativo. L’idea del regista era quella di adattare la tematica proposta (non la svelo ma basta guardare il retro del dvd per capirla) sfruttando l’impostazione visiva degli anni ’70: la strizzata d’occhio al celebre “Texas Chainsaw Massacre” è più che evidente ma i due film mantengono ciascuno la propria precisa identità (per fortuna). Lo sviluppo della trama è ben studiato e si attesta su ritmi piuttosto lenti ma funzionali alla comprensione dei meccanismi che regolano la vita dei personaggi. Più che il tema in sé appare intrigante la messa in scena dell’opera , la quale consente l’approfondimento di natura culturale, sociale e religiosa che fa da struttura portante alla pellicola. Quasi senza accorgercene veniamo trascinanti nel folle e macabro mondo della famiglia Parker, un mondo fatto di rispetto per le tradizioni e devozione assoluta verso le proprie origini ancestrali. Sullo sfondo aleggia un certo fanatismo religioso, mai eccessivamente ostentato, ma elemento imprescindibile a cui Frank si aggrappa per giustificare le azioni che compie: tutto ciò che fa è in nome di Dio e dell’amore per i suoi cari e perciò giustificato e perdonato. La percezione della realtà è completamente distorta dalle convinzioni dell’uomo, non una figura “cattiva” -se collocata ovviamente in tale contesto- ma premurosa e amorevole nei confronti dei figli, tanto da suscitare una sorta di compassione mista a disgusto. Le figlie, se prima subivano passivamente le scelte dei genitori, dopo la morte della madre si ritrovano loro malgrado coinvolte in prima persona, scoprendosi estremamente riluttanti e dubbiose. Le due attrici (Ambyr Childers e Julia Garner), carismatiche ed affascinanti più che mai, sono abili ad esprimere il malessere dei personaggi che interpretano, comunicando attraverso la gestualità ed il linguaggio del corpo la moltitudine di stati d’animo che causa loro un inaspettato moto interiore: confusione, disagio, senso di colpa, ribellione. Sentimenti contrastanti con quello che è il senso di appartenenza al focolare domestico e all’attaccamento affettivo verso la figura paterna: questa dualità rende la storia più avvincente ed “umana”, pur nella sua cornice bestiale e crudele. Non c’è compiacimento nella violenza perpetrata dai nostri, poiché è una violenza necessaria alla sopravvivenza. Al contrario, le giovani donne, nell’affrontare il pesante fardello, appaiono sofferenti dinnanzi alla propria diversità e tenteranno di ribellarsi alla loro condizione, disumana e allo stesso tempo “naturale”. Le tante sfumature della pellicola consentono a Mickle di approcciarsi alla storia con un piglio drammatico senza mai sminuire l’aspetto più concettualmente horror. A differenza di quanto ci si potrebbe aspettare, sono pochi infatti i momenti gore, confinati nell’esplosivo e spettacolare finale. Il comparto tecnico è di alto livello: ad incorniciare una regia curata e ricercata, vi è una fotografia tetra, metallica e “settantiana”, che si sposa perfettamente con l’atmosfera marcia del film. “We Are What We Are” è in definitiva un buon prodotto -che tuttavia deluderà chi cerca l’originalità a tutti i costi-, non un involucro vuoto tinto di rosso ma un contenitore di riflessioni con cui tutti noi possiamo potenzialmente identificarci.