Becca e Tyler, fratello e
sorella, si apprestano a conoscere i nonni materni con i quali non hanno mai
avuto contatti per via di un litigio tra questi ultimi e la madre. Giunti sul
posto vengono accolti dalla coppia di anziani coniugi, entusiasti della visita
dei nipoti. Becca decide di girare un documentario sulla vacanza e riprende
ogni momento della giornata con la sua videocamera. Ben presto i nonni
cominceranno ad avere strani ed inquietanti comportamenti e i due ragazzi
dovranno fare i conti con una terrificante verità.
La moda del found footage/mockumentary ha colpito tutti: dai registi esordienti, che sfruttano tale format per nascondere le imperfezioni tecniche causate dall’inesperienza, ai cineasti più affermati che, al contrario, mettono la propria esperienza al servizio di uno stile
apparentemente semplice nella
realizzazione, ma dall’efficacia non sempre assicurata. Il marchio di fabbrica
della Blumhouse crea delle aspettative ben precise, che sminuiscono in parte le
speranze di vedere un prodotto fresco ed
originale, speranze probabilmente ignorate dal pubblico cui sono destinate le
opere che portano la firma della prolifica casa di produzione americana. Sorprendentemente Shyamalan, che non è proprio l’ultimo arrivato, sfrutta con
coraggio e competenza la tendenza del momento, dando alla luce una pellicola
gradevole e personale, seppur tecnicamente confinata entro le limitazioni
intrinseche del genere. Il regista indiano è abile nel costruire una vicenda
avvincente senza mai focalizzare l’attenzione esclusivamente sulla tecnica di
ripresa utilizzata, ma lavorando in armonia con tutti gli elementi cinematografici di base. Il POV funge da mezzo per incorniciare un prodotto
convincente, ricco di spunti interessanti e soprattutto privo di quelle
voragini strutturali e formali che fanno puntualmente capolino in pellicole
dello stesso filone. Shyamalan porta la
propria voce in scena attraverso la quindicenne Becca, aspirante filmaker, la
quale rappresenta una sorta di alter ego del regista stesso che, attraverso questa
proiezione, ci svela senza mezzi
termini la propria concezione di cinema:
un escamotage indovinato che salva la pellicola dall’anonimato e che manifesta
perfettamente l’imprinting artistico del cineasta. “The Visit” sorprende
positivamente per la sapiente alternanza di toni e sfumature differenti, che fanno
viaggiare il film su binari diversi ma destinati ad incrociarsi: a metà strada
tra thriller e horror comedy, il film intrattiene bene mantenendo sempre elevata la soglia di
attenzione. Siparietti comici e situazioni al limite del grottesco vengono
inseriti in contesti spesso stranianti, smorzando la tensione e provocando più
di un sorriso. Nonostante la “leggerezza” di certi passaggi, l’approfondimento
caratteriale e psicologico dei personaggi non viene trascurato, facendo
emergere i lati più oscuri e drammatici della vita dei due piccoli
protagonisti. Seguendo esattamente lo
schema stilistico di Becca/Shyamalan, la pellicola conserva un certo alone
misterioso, puntando più sulla raffigurazione di uno scenario suggestivo ed
atmosferico e sulla costruzione di un climax crescente di suspance piuttosto
che sulla rappresentazione esplicita della violenza. Ciò non implica la totale
assenza di scene ad effetto, che mai comunque scivolano nel facile approccio
sensazionalistico. Notevole la prova attoriale di Peter McRobbie e Deanna
Dunagan, nei panni dei nonni; in particolare la Dunagan ci regala svariati momenti
angoscianti e bizzarri, che potrebbero far saltare dalla sedia gli spettatori
meno avvezzi al genere. Se in alcuni
lavori del passato di Shyamalan la sceneggiatura era il punto dolente e mirava
unicamente al tradizionale colpo di scena finale, in “The Visit” lo script è
ben solido e, sebbene si appoggi all’espediente tanto caro al regista di
disseminare indizi fuorvianti, ci conduce con naturalezza al classico – e
atteso - twist ending: della serie “il
lupo perde il pelo ma non il vizio”, con la differenza che questa volta
funziona; ogni tassello è insomma al posto giusto. Un film che attraverso una
storia semplice dal taglio orrorifico, porta a galla sottotesti familiari e sentimenti
contrastanti: il conflitto tra genitori e figli, la ricerca del perdono, il
senso di colpa, il rancore. In conclusione, non grido al capolavoro ma mi
aggiungo al coro di voci che promuove quest’ultima fatica di Shyamalan. In fondo
per fare del buon cinema basta fare un’inquadratura e costruirci intorno una
storia…