Nomura vive a Tokyo, è un uomo affascinante e benestante con
l’hobby di torturare e uccidere giovani ragazze sotto l’occhio vigile delle sue
telecamere. I video, postati su internet, vengono visionati da Bayu, un giornalista di Giacarta
la cui vita lavorativa e sentimentale sembra andare a rotoli. Quest’ultimo,
spinto dal desiderio di vendetta, si ritroverà quasi inconsapevolmente ad emulare il sadico
assassino, fino a quando le strade dei due s’incroceranno pericolosamente.
A cinque anni dall’esordio (“Macabre”) i Mo Brothers si cimentano nel loro secondo lungometraggio, non prima però di aver partecipato a
progetti di notevole fattura quali “ABCs of Death” con il corto “L is for
Libido” e “V/H/S 2”, co-dirigendo l’ottimo “Safe Evans” insieme a Gareth
Evans. Quest’ultimo partecipa alla
realizzazione di “Killers” in veste di produttore: un gruppo che fa ben sperare
nella buona riuscita della pellicola. I
registi partoriscono un lavoro estremamete ambizioso e complesso, di difficile
catalogazione e dalle molteplici sfumature. Il duo riesce a confezionare
un’opera
che va oltre gli abituali schemi, esteticamente molto curata e raffinata ma carente dal punto di vista narrativo. Il film, nonostante trabocchi di idee, non ha una una precisa identità e pare più essere una commistione di generi che rischia di finire nell’anonimato. Gli spunti sono tanti ed interessanti ma ciò che manca è l’ingrediente segreto a fare da collante: c’è l’elemento snuff, il torture porn, il thriller psicologico e perfino –sullo sfondo– un rimando ai gangster movies orientali, con tutti i luoghi comuni che ne derivano. La vicenda ruota attorno alle due figure dei protagonisti, apparentemente diversi ma uniti dallo stesso modo distorto di percepire la realtà. Lontani geograficamente ma vicini grazie alla rete ed al sottile e perverso piacere che procura la sofferenza e la morte di altre persone. Il giornalista, ossessionato da un mafioso locale e con la famiglia allo sfascio, si lascia trasportare in un circolo vizioso di pericolosa emulazione, scivolando in un abisso reso non meno infernale dalla patina di giustizia che vorrebbe conferire alle sue azioni. Se Nomura – una sorta di Patrick Bateman del Sol Levante – è uno spietato macellaio che agisce con disarmante lucidità esclusivamente per soddisfare un bisogno carnale, Bayu inizia la sua carriera di assassino nei panni della vittima, trasformandosi in carnefice spinto da un senso di rivalsa personale e sociale. Il rapporto che si va instaurando tra i due è simile a quello tra maestro ed allievo, ai limiti del plagio: le storie dei personaggi, seppur viaggino parallele, sono unite da un filo sottile, forse fin troppo per giustificare l’enorme influenza che l’uno sembra avere sull’altro. Il duo indonesiano è comunque abile a mettere in scena il cambiamento comportamentale di Bayu, che vive la sua nuova “passione” in modo tragico e drammatico, a differenza di Nomura, personaggio più statico ma allo stesso tempo ambiguo, dietro la cui freddezza emotiva si nasconde un passato familiare funesto.
I difetti maggiori della pellicola si riscontrano soprattutto nella sceneggiatura che appare frammentata e poco omogenea. Il minutaggio complessivo (ben 137 minuti) non fa che accentuare l’eccessiva dilatazione narrativa e, nonostante le due ore abbondanti, il film non pare mai prendere una direzione ben precisa, lasciando una fastidiosa sensazione di incompiutezza. Anche il ritmo della storia risente di tale approssimazione: è una continua riproposizione di situazioni simili non sempre funzionale allo sviluppo della trama. A parte qualche difettuccio nella CGI, le sequenze più efferate godono di un’ottima resa tecnica, grazie anche al supporto di una splendida e patinata fotografia e di una colonna sonora elegante e delicata. Le scene più scioccanti e crude sembrano però quasi fini a sé stesse poiché male si inseriscono nel contesto narrativo: si ha così l’impressione di vedere delle istantanee di violenza che appaiono e scompaiono velocemente senza riuscire ad imprimersi nella memoria né a creare un qualsivoglia senso di disturbo allo spettatore. I Mo Brothers hanno osato forse più del dovuto, mettendo, come si suol dire, troppa carne al fuoco. Il risultato finale è un film formalmente perfetto che tuttavia si perde in lungaggini evitabili ed affronta il tema centrale – quello dell’influenza potenzialmente nefasta delle immagini che quotidianamente internet ci vomita addosso – con eccessiva superficialità.
Pubblicato su HorrorMovie
che va oltre gli abituali schemi, esteticamente molto curata e raffinata ma carente dal punto di vista narrativo. Il film, nonostante trabocchi di idee, non ha una una precisa identità e pare più essere una commistione di generi che rischia di finire nell’anonimato. Gli spunti sono tanti ed interessanti ma ciò che manca è l’ingrediente segreto a fare da collante: c’è l’elemento snuff, il torture porn, il thriller psicologico e perfino –sullo sfondo– un rimando ai gangster movies orientali, con tutti i luoghi comuni che ne derivano. La vicenda ruota attorno alle due figure dei protagonisti, apparentemente diversi ma uniti dallo stesso modo distorto di percepire la realtà. Lontani geograficamente ma vicini grazie alla rete ed al sottile e perverso piacere che procura la sofferenza e la morte di altre persone. Il giornalista, ossessionato da un mafioso locale e con la famiglia allo sfascio, si lascia trasportare in un circolo vizioso di pericolosa emulazione, scivolando in un abisso reso non meno infernale dalla patina di giustizia che vorrebbe conferire alle sue azioni. Se Nomura – una sorta di Patrick Bateman del Sol Levante – è uno spietato macellaio che agisce con disarmante lucidità esclusivamente per soddisfare un bisogno carnale, Bayu inizia la sua carriera di assassino nei panni della vittima, trasformandosi in carnefice spinto da un senso di rivalsa personale e sociale. Il rapporto che si va instaurando tra i due è simile a quello tra maestro ed allievo, ai limiti del plagio: le storie dei personaggi, seppur viaggino parallele, sono unite da un filo sottile, forse fin troppo per giustificare l’enorme influenza che l’uno sembra avere sull’altro. Il duo indonesiano è comunque abile a mettere in scena il cambiamento comportamentale di Bayu, che vive la sua nuova “passione” in modo tragico e drammatico, a differenza di Nomura, personaggio più statico ma allo stesso tempo ambiguo, dietro la cui freddezza emotiva si nasconde un passato familiare funesto.
I difetti maggiori della pellicola si riscontrano soprattutto nella sceneggiatura che appare frammentata e poco omogenea. Il minutaggio complessivo (ben 137 minuti) non fa che accentuare l’eccessiva dilatazione narrativa e, nonostante le due ore abbondanti, il film non pare mai prendere una direzione ben precisa, lasciando una fastidiosa sensazione di incompiutezza. Anche il ritmo della storia risente di tale approssimazione: è una continua riproposizione di situazioni simili non sempre funzionale allo sviluppo della trama. A parte qualche difettuccio nella CGI, le sequenze più efferate godono di un’ottima resa tecnica, grazie anche al supporto di una splendida e patinata fotografia e di una colonna sonora elegante e delicata. Le scene più scioccanti e crude sembrano però quasi fini a sé stesse poiché male si inseriscono nel contesto narrativo: si ha così l’impressione di vedere delle istantanee di violenza che appaiono e scompaiono velocemente senza riuscire ad imprimersi nella memoria né a creare un qualsivoglia senso di disturbo allo spettatore. I Mo Brothers hanno osato forse più del dovuto, mettendo, come si suol dire, troppa carne al fuoco. Il risultato finale è un film formalmente perfetto che tuttavia si perde in lungaggini evitabili ed affronta il tema centrale – quello dell’influenza potenzialmente nefasta delle immagini che quotidianamente internet ci vomita addosso – con eccessiva superficialità.
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