Laura si è da poco trasferita in un nuovo appartamento. Conduce
una vita spenta, priva di stimoli, ed ha un fidanzato scontroso e poco devoto.
Una mattina si sveglia con delle ecchimosi comparse inspiegabilmente sul corpo.
Da quel giorno in poi inizieranno a manifestarsi tutti i sintomi di una
prematura putrefazione: unghie che si staccano, pelle che marcisce, ossa che si
rompono. Di fronte alla consapevolezza dell’imminente fine, la giovane si
abbandonerà alla sua sorte.
Esordio alla regia per il canadese Eric Falardeau, che sforna un’opera dal
sapore undergound unica nel suo genere. La pellicola, distribuita dalla
prolifica Black Lava Entertainment, ha
visto la luce dopo un travagliato percorso fatto di studi e ricerche nel campo
della decomposizione fisica: il regista si è infatti laureato in “film studies”
presentando una tesi sui fluidi corporei nel cinema gore e porno (!!!) Tutto il
“sapere teorico” di Falardeau viene riversato in questo film, forte visivamente
ma estraneo dal concetto di pornografia dell’orrore fine a sé stessa: il
processo biologico viene infatti mostrato come metafora e specchio riflesso di
un’esistenza vuota e rassegnata al proprio destino. L’opera è suddivisa in tre
capitoli (“despair”, “another” e “oneself”), struttura che rimanda a “Sygdommen
til Døden” (“La Malattia Mortale”) del filosofo Søren Kierkegaard, un saggio
che, attraverso l’approccio psicologico, tratta il tema della malattia e della
disperazione intese come facce della stessa medaglia. Ed è proprio la morte il fulcro del film, o
per meglio dire il disfacimento del corpo come atto conclusivo di un
annichilimento mentale e spirituale. “Thanatomorphose” è volutamente privo di un intreccio narrativo e
racconta quel poco che basta sulla vita della protagonista e sul suo rapporto non
proprio idilliaco con il fidanzato, dipinto come una figura insensibile e
burbera. Eccellente l’interpretazione di Kayden Rose la quale si è dovuta
sottoporre ad ore e ore di trucco: ottimo il lavoro prostatico e di make up,
reso ancora più realistico da una fotografia sempre equilibrata. Il regista canadese
sfrutta un linguaggio cinematografico non convenzionale,
che risulta a tratti ostico ma che riesce a trascinare lo spettatore in un vortice di angoscia e
alienazione, facendogli quasi percepire attraverso lo schermo l’odore
nauseabondo della decomposizione. Ogni singolo dettaglio riflette il dramma
interiore ed esteriore di Laura: sequenze dilatate e ritmi lenti accentuano l’atmosfera
opprimente, ulteriormente esasperata da un’ambientazione spoglia e scialba (la casa, unica location
del film), la quale riporta inevitabilmente alla mente Jorg Buttgereit, dal
quale Falardeau ha ripreso anche lo
stile registico, sempre attento e raffinato. La mutazione della ragazza – che
non lascia il minimo spazio all’immaginazione – viene accompagnata dal
sottofondo musicale Guild of Funerary Violins: una marcia solenne, mesta
e romantica che esalta l’estetica del film sviscerando lo spettro di emozioni
legate al lutto e alla morte. Ossessivo l’elemento sessuale, concepito
probabilmente come unico ponte di collegamento con la vita: di fronte ad una
crepa sul muro che ricorda le parti intime femminili, Laura non rinuncerà ad
abbandonarsi al piacere carnale in solitaria, ed anche quando il suo corpo
cadrà letteralmente a pezzi, concederà una disperata fellatio ad un suo (ex)
ammiratore, il quale si ritroverà di fronte ad una scena surreale, dove sperma,
vermi e liquidi corporei si mischiano in una danza putrescente. In questa inesorabile discesa negli inferi,
tra materiale organico in decomposizione e scricchiolio di ossa che si rompono,
non c’è spazio per la speranza, non c’è spazio per la lotta, esiste solo la
consapevolezza della fine. Una consapevolezza reale, tangibile, con cui ognuno
di noi potrebbe ritrovarsi a fare i conti. Ed è questo, forse, il vero
orrore.